Così come notato da The Next Web, i grandi gruppi non sembrano particolarmente felici del fatto che i propri maggiori brand possano diventare parole di uso comune. Termini come “googlare“, del resto, sono una sorta di semplificazione accettabile, ma il loro uso in contesti ufficiali (fino all’enunciazione sui vocabolari) mettono a rischio quella che è l’integrità del brand. E Google è soltanto un esempio: nel momento in cui il dominio sul mercato si fa totalizzante, il brand sfuma giocoforza in un significato dilatato. Così come “Playstation” è stato a lungo sinonimo di console, senza farsi verbo, ma diventando nome comune di cosa utilizzabile anche per Xbox ed altre concorrenti.
The Next Web sottolinea infatti come anche Adobe abbia serie ritrosie in proposito. Oggigiorno, infatti, il termine “photoshoppare” ha assunto una accezione negativa che sa di falso, di posticcio, di ingannevole. Il trademark si è fatto verbo e va oggi a braccetto con le pubblicità ingannevoli, con i dimagrimenti miracolosi delle modelle in copertina ed altro ancora. Quel che nasce come un prodigio tecnologico muta in un nuovo significato sociale e scade da nome proprio a verbo coniugato.
Per questo motivo Adobe ha elencato regole specifiche per l’uso dei propri marchi. Se parlare di “Adobe® Photoshop®” è cosa regolare, dunque, dire invece “l’immagine è stata photoshoppata” non è invece lecito. E potenzialmente perseguibile in qualità di violazione del trademark. Adobe usa tanto di esempi per dimostrare cosa è lecito e cosa non lo è: si può usare la terminologia “Adobe Photoshop” e non il solo “Photoshop”, ad esempio, e le linee guida sono in tal senso estremamente chiare e dettagliate.
Il consiglio è pertanto quello di non googlare le photoshoppate. Si rischia di commettere una doppia violazione di trademark mentre si pensava semplicemente di fare qualcosa di estremamente naturale.