WhatsApp, ecco come l'FBI lo sfrutta per spiare i suoi utenti

WhatsApp (e non solo) sarebbe tra gli strumenti preferiti dal Governo USA e dall'FBI per raccogliere dati e spiare gli utenti.
WhatsApp, ecco come l'FBI lo sfrutta per spiare i suoi utenti
WhatsApp (e non solo) sarebbe tra gli strumenti preferiti dal Governo USA e dall'FBI per raccogliere dati e spiare gli utenti.

Lo scorso anno rivista Rolling Stone era entrata in possesso di un documento interno dell’FBI intitolato “Accesso legale”, dove veniva descritto, tra le altre cose, come la nota Agenzia di intelligence americana sarebbe in grado di ottenere tipo e quantità di dati attraverso le più note applicazioni di messaggistica, in particolare da WhatsApp di Meta e iMessage di Apple. Il documento, redatto congiuntamente dalla Divisione Scienza e Tecnologia e dalla Divisione di Tecnologia Operativa del bureau aveva ovviamente scatenato molte reazioni, in particolare da parte di giornalisti, attivisti dei diritti civili e critici del governo Biden, preoccupati da queste “forme di sorveglianza di massa indiscriminata”, che rischiavano (e rischiano) di violare i diritti sanciti dalla Costituzione e di generare discriminazioni e persecuzioni politiche, come avviene ad esempio in quella Cina che proprio gli USA spesso additano in tal senso come esempio negativo.

FBI e WhatsApp, è ancora amore?

Il documento riportato da Rolling Stone risultava datato 7 gennaio 2021, e nonostante non riportasse la dicitura “classificato”, sembrava comunque riservato per un uso esclusivo ufficiale delle sole Forze dell’ordine e dei dirigenti degli enti governativi preposti. Ad un’analisi del testo si scopre quindi come dal 20 novembre 2020, l’FBI abbia la possibilità di accedere in varie forme e con diversi approcci “legalmente” alle principali applicazioni di messaggistica, ovverosia Signal, Telegram, Threema, iMessagge, Line, Viber, WeChat, Wickr e WhatsApp.

E sarebbe proprio quest’ultima, sempre secondo quanto si può leggere nel documento, l’applicazione “preferita” dagli agenti, in quanto sarebbe in grado di fornire loro i dati desiderati in tempi abbastanza brevi.

Inoltre rispetto alle altre app garantirebbe un maggior flusso di informazioni: Telegram e Signal, per esempio, risulterebbero in tal senso più “blindate” in termini di accesso ai dati dei loro utenti, anche a fronte di eventuali richieste ufficiali da parte di un tribunale. Giusto però sottolineare come WhatsApp abbia introdotto i backup criptati end-to-end e soluzioni come i messaggi effimeri nei gruppi che potrebbero nel frattempo aver cambiato la situazione limitando anche su di essa l’accesso a certi contenuti.

Il Governo USA come il Grande Fratello

Negli Stati Uniti (e non solo lì a dire il vero), come scritto all’inizio, si sono scatenate molte polemiche sulla privacy violata e sulla minaccia di un Grande Fratello che controllerebbe i cittadini violando quelli che sono i diritti fondamentali di una democrazia. E questo nonostante, sempre nel testo, si legga che l’intervento dell’FBI e la raccolta di dati può avvenire solo previa autorizzazione di un giudice.

Secondo l’opinione di alcuni attivisti, infatti, “non ci vorrebbe troppa fantasia per l’intelligence motivare una richiesta utile a giustificare un mandato di autorizzazione” a monitorare un particolare soggetto.

Tra l’altro, sottolineano i critici, lo stesso documento descrive come la Federal Bureau of Investigation abbia a sua disposizione più percorsi legali per ricavare i dati sensibili degli utenti dai più popolari strumenti di messaggistica. Per non parlare delle leggi adottate dagli USA in materia di sicurezza interna, uno dei motivi tra l’altro di scontro con l’UE che aveva in tal senso introdotto il General Data Protection Regulation, il regolamento che riguarda il trattamento e la libera circolazione dei dati personali dei cittadini europei.

La legge statunitense, infatti, consente alle Big Tech di fornire alle autorità i dati personali di qualsiasi utente per motivi di sorveglianza e sicurezza. E questo cozza, e di molto, con il GDPR. Non a caso lo scorso luglio la Corte di Giustizia UE ha stabilito con la sentenza Schrems II che il Privacy Shield, ovverosia la normativa che fino a quel momento era stata adottata per regolare il trasferimento dei dati tra UE e USA, non era più valido.

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