“Ci conosciamo tutti e tutti conoscono noi…”. Così ha scritto una certa M.C., che si definisce amica di Yara, la tredicenne di Brembate trovata morta l’altro giorno dopo tre mesi di ricerche. Un messaggio su Facebook che ha convinto i magistrati a rintracciare questa ragazza per interrogarla.
Si tratta solo dell’ultimo episodio di una lunga serie di incroci fra attività investigativa e social network. In un gioco al rimbalzo caotico, e talvolta crudele, fra realtà, televisione e Web, la vicenda di Yara ha riacceso l’attenzione di tutta l’opinione pubblica, così come era accaduto con Sarah Scazzi.
Il problema sta tutto nella difficoltà di separare possibili elementi di aiuto all’inchiesta con le speculazioni sulla vicenda, tra offensivi e stupidi gruppi ed altri che invece si sono organizzati per trovare la ragazza, mentre in queste ore fioriscono, inevitabilmente, quelli che inneggiano alla pena di morte per il suo assassino.
Ma tra questa selva di commenti, di status, di tweet, c’è davvero qualcosa che potrebbe essere sfuggito agli inquirenti? È il tarlo della procura di Bergamo, che nei giorni scorsi ha spesso chiesto, tramite la polizia postale, di contattare Facebook per rintracciare e chiudere i gruppi offensivi, ora sembra cominciare a chiedere i nomi di alcuni utenti per interrogarli come persone informate sui fatti.
Una strategia diversa oppure solo un modo per intimorire i soliti troll? Di certo la comunità in cui è accaduto questo assassinio tremendo è piccola, raccolta: si dovrebbero avere occhi ed orecchie dappertutto senza farsi notare. Impossibile, tranne che per un social network.