Il suo nome è Gilles De Kerchove, coordinatore dell’unità antiterrorismo dell’Unione Europea. E le sue parole hanno tuonato sull’attuale sistema che regola i rapporti tra utenti, istituzioni e aziende che controllano servizi online quali Facebook o YouTube. Tutto parte dai tristi fatti di Parigi, che hanno scosso tutta l’Europa e che anche in Italia rischiano di portare ad un deleterio giro di vite sul controllo online: il principio che si fa largo tra le autorità è che la sicurezza si debba raggiungere tramite un maggior controllo, e che quindi per perseguire la libertà occorra anzitutto massimizzare i filtri.
Il caso YouTube
Il riferimento primo di De Kerchove è nei confronti di YouTube, piattaforma di riferimento per l’upload e la condivisione di file video: strumenti di questo tipo sono stati spesso usati dal terrorismo tanto per rivendicare le proprie azioni, quanto per far propaganda e proselitismo, quanto ancora per testimoniare la propria battaglia contro il nemico occidentale. I timori dell’occidente rischiano però di implodere in una deleteria rincorsa al controllo assoluto: secondo De Kerchove, infatti, gli stati devono assolutamente fare qualcosa per impedire che il terrorismo possa usare i social media per amplificare la propria voce.
La questione può facilmente scivolare su un terreno pericoloso e la Policy Manager di Google, Verity Harding, ha dovuto ribadire alcuni punti fermi che non sempre le istituzioni dimostrano di avere chiari in mente. Primo, che YouTube non ha mai operato alcun controllo preventivo sui contenuti caricati e tutto ciò per una questione estremamente semplice: non è possibile monitorare una piattaforma ove ogni singolo minuto che passa vengono caricate 300 ore di filmato («sarebbe come controllare una telefonata prima che venga effettuata»). Secondo, YouTube ha policy precise e modelli collaudati per segnalare i filmati ritenuti a rischio: i protocolli elaborati nel tempo portano a vagliare i filmati segnalati ed a precluderne la visione in caso di violazione del regolamento. Terzo, l’azione diretta del gruppo avviene soltanto a seguito della segnalazione di un filmato, operando con rapidità ma senza responsabilità alcuna sulla natura dei filmati presenti online laddove nessuno ne abbia segnalata l’inopportunità.
La chiamata di De Kerchove all’azione suggerisce l’istituzione di apposite task force nazionali per il monitoraggio dei filmati, la segnalazione e il relativo eventuale affossamento. Tale lavoro andrebbe ad affiancare e completare quello della community, la quale può agire con maggior incisività laddove abbia chiari i paletti entro cui giudicare un filmato. Compito degli stati, dunque, dovrebbe essere quello di operare sì proattivamente nella segnalazione di filmati inopportuni, ma anche quello di promuovere la giusta consapevolezza da parte degli utenti e la giusta formazione nei confronti degli stessi. Un utente consapevole è un utente responsabilizzato, e un utente responsabilizzato è un utente coinvolto.
Fare fronte comune non è questione regolamentare, ma culturale. Perché se l’assunto è quello per cui la censura preventiva non sia mai la giusta soluzione, occorre ridisegnare gran parte dei protocolli sui quali è stato fino ad oggi strutturato il controllo nelle sue varie forme.
We have to fight hate online by drowning it out, not by censoring it – my post for the Google Europe blog: http://t.co/9Xh5GBQ8MB
— Verity Harding (@verityharding) March 27, 2014
YouTube, da parte sua, ha messo in campo il fattore umano laddove gli algoritmi non possono arrivare: ogni filmato segnalato viene giudicato da un team di persone attivo 7 giorni su 7, 24 ore su 24, prendendo però in esame quei filmati che la community ha già segnalato come problematici. Google ricorda anzi tramite la Harding come esistano gruppi a livello internazionale estremamente proattivi nel segnalare filmati problematici, cosa che fa diventare il lavoro di controllo più semplice e rapido grazie alla collaborazione ed all’efficienza messi in campo dai vari attori.
Non è questione normativa
Lo stato che promuove la censura preventiva sta spostando la responsabilità dall’utente al provider, ignorando il fatto che mentre il primo ha in mano tutti gli strumenti per poter “flaggare” un filmato come inopportuno, il secondo non ha invece alcuna possibilità di reazione in virtù dell’impossibilità di pre-verificare quanto caricato online. Le stesse normative europee hanno più volte difeso l’attività di mere conduit in capo a YouTube e simili, ma le tensioni innescate dalla nuova ondata terroristica hanno risollevato antichi timori, vecchie tentazioni e nuove pulsioni di censura.
De Kerchove ammette che la soluzione non possa essere trovata a livello normativo: non può essere una legge a imporre controlli e veti in un contesto nel quale tecnologia, rapporti ed equilibri sono gli unici ingredienti che si possono mettere in campo. Nell’epoca della disintermediazione, infatti, viene meno il ruolo di chi raccoglie informazioni e le ridistribuisce secondo parametri propri, scelte strategiche e obiettivi editoriali. Le piattaforme che mettono gli utenti in contatto con altri utenti, facendosi semplici intermediarie in questo scambio, non possono agire per moto proprio se non ex post. In questo contesto ogni regolamento diventa inapplicabile ed eventuali azioni di controllo vanno strutturate secondo principi differenti.
La collaborazione tra utenti, aziende ed istituzioni, insomma, deve dar vita a sinergie in grado di compensare il venir meno del potere che vecchie normative hanno su nuove realtà. Non saranno dunque nuove leggi a fermare la propaganda terroristica, né sarà un filmato che rimane qualche ora online a dar vita ad una nuova Jihad. Occorre semmai capirsi su costi e benefici che la censura porta con sé, così da riequilibrare responsabilità e ruoli consentendo a tutti gli attori di remare nella stessa direzione.